Memoria ribelle (Monologhi)

Monologo di Cornelia "Amelia"

“Io non sono tornata.”

Mi chiamo Cornelia, anche se non sempre mi hanno chiamata così.
Ero solo una ragazza.
Avevo diciannove anni quando decisi che non sarei più stata zitta.

La mia guerra è cominciata prima ancora delle montagne.
È cominciata quando ho scritto un volantino nella cucina di mia madre.
Quando ho nascosto una pistola dentro un cesto del bucato.

Non avevo paura della morte.
Avevo paura dell’oblio. Della rassegnazione.
Di quelle cuciture strette che ci facevano essere solo mogli, figlie, silenzi.

Mi hanno detto che qualcuno vuole raccontare la mia storia.
Strano effetto, sai? Sentirmi nominare dopo così tanto silenzio.

Mi chiamavano “ribelle, sovversiva, partigiana”, lo sai?
Mio fratello diceva. “È tutta matta, quella lì.”
Forse lo ero davvero. Ma non nel modo in cui pensavano loro.

Ero ribelle perché parlavo quando le donne dovevano tacere.
Perché credevo che la libertà non fosse solo per gli uomini.
Perché volevo scegliere da sola a chi dare la mia vita — e se darla.
E quando il fascismo ha cominciato a bruciare, devastare ogni cosa, io non ho aspettato.
Ho preso le gambe, il coraggio, e me ne sono andata.

Mi unirono alla Brigata Garibaldina Stella, lì ho trovato fratelli e sorelle. Non sempre eravamo d'accordo, ma avevamo fame di giustizia. E fame, quella vera.
Ci muovevamo tra i boschi e i paesi, sempre un passo davanti ai rastrellamenti.
Io ho fatto la staffetta, ma ero anche sentinella, infermiera, spalla, complice.
Non c'erano gradi per noi donne, ma c’era rispetto. Almeno lì.

Ho portato notizie, informazioni, armi, medicine.
Ho tenuto un compagno ferito tra le braccia finché non è morto senza dire una parola.
Ho pianto, ma solo dopo. 

Poi venne il giorno della perquisizione della casa di famiglia.
Cercavano me. Cercavano mio fratello Giovanni, che avevo portato via con me per proteggerlo.
L’avevo nascosto tra le montagne: troppo giovane, troppo fragile per sopravvivere alla guerra.
La mia colpa fu averlo strappato al destino che altri avevano deciso per lui.
Non trovarono che vecchie foto, qualche libro, la mia assenza.
Rovistarono in ogni angolo, e lasciarono la casa come una ferita aperta.
Da quel momento, la mia famiglia non parlò più di me.
Come se il mio nome fosse diventato un'ombra. Ero un pericolo, una vergogna.

Una donna che combatte è scomoda prima di tutto per chi le è vicino.
Perché ti fa vedere cos’hai accettato. E cosa non hai avuto il coraggio di fare.

Quando la guerra finì, alle donne dissero: “Grazie. Adesso tornate a casa.”
Ma io non ci sono mai tornata davvero.
Io non volevo tornare a servire, tacere, obbedire.
Volevo vivere. Pensare. Lottare ancora.

Poi sono tornata. Non a casa.
Alla mia città. Al mio nome. Al mio errore.

Sono morta giovane, forse è stato un dono crudele.
Non ho dovuto vedere le mie compagne ridotte al silenzio.
Non ho dovuto vedere i comandi occupati solo da uomini.
Non ho dovuto vivere senza voce.

Non sono tornata per restare zitta.
Non sono morta per fare contenti quelli che pensavano: “Ecco, un’altra ribelle in meno.”
Non sono nata per aspettare che qualcuno mi dicesse cosa fare, come vestirmi, chi amare, come stare al mondo.

Non mi sono buttata nella lotta per il gusto del pericolo. L’ho fatto perché nessuno, e dico nessuno, mi avrebbe tolto il diritto di decidere per me.
E se questo significava portare un’arma, passare messaggi, rischiare la pelle per la libertà degli altri — allora sì. Allora lo facevo. Anche da sola.

Perché io non ero ribelle.
Ero libera.

Mi chiamavano Amelia, ma io mi chiamavo come volevo.
Perché anche il nome può essere una Resistenza.

Non mi sono fatta uccidere. Mi hanno uccisa.
Ma non mi hanno spenta.

Perché ora siete voi a ricordare.
Siete voi a dire il mio nome. A scrivere quello che non hanno voluto scrivere.
A parlare di noi, le donne della Resistenza, come non si è mai fatto davvero.

Ma ora che voi cercate, ora che pronunciate il mio nome —
non smettete più.
Non lasciate che ci raccontino solo come portatrici di viveri.
Noi eravamo la Resistenza.

Non mi vedrete nei libri.
Non troverete la mia foto appesa in nessuna scuola.
Ma sentite bene: io ci sono.

Nella voce di mia nipote.
Nel silenzio che ha lasciato mia madre, nei ricordi dei miei fratelli e sorelle.
Negli occhi delle donne che oggi non chiedono più il permesso.

Io non sono tornata.
Perché non me ne sono mai andata.


Alla ragazza di oggi “A te, che oggi puoi parlare.”

Parla.
Parla anche per me.
Perché io avevo le parole, ma il tempo me le ha tolte.
Tu ce le hai tutte, e ce le hai ora.

Scrivi il tuo nome. Gridalo. Portalo dove non avrei mai potuto.
Non permettere che ti dicano “sei troppo”.
Troppo intelligente, troppo forte, troppo fuori posto.

Essere “troppo” mi è costato tutto.
A te può aprire il mondo.

A te, il mondo non si limita.
Si schiude, si svela, si offre.
Ogni porta, ogni soglia, ogni respiro:
un invito a varcare, a scoprire, a essere.
Il mondo non è lontano:
è lì, in attesa, pronto ad aprirsi,
solo per te.  

E se un giorno sentirai dire che non vale la pena combattere per qualcosa…
Ricorda me.
Che ho combattuto senza sapere se sarei stata ricordata.


"A voi che siete qui"

Vi hanno raccontato che la Resistenza l’hanno fatta gli uomini.
Che le donne portavano i viveri. Che stavano nell’ombra.
Che dopo la guerra tutto è tornato come prima.

Non è vero.

Noi donne abbiamo resistito due volte:
al fascismo, e all’Italia che voleva dimenticarci.

A te che ascolti, chiedo solo questo:
non lasciarmi di nuovo nel silenzio.

Parla di me.
Non come eroina, non come martire.
Come donna libera.
Una che non ha chiesto il permesso.


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